Affrontare un remake dei primi due Dragon Quest significa confrontarsi con due opere che non solo appartengono alla preistoria del JRPG, ma che ne hanno letteralmente gettato le fondamenta. Pubblicati a metà degli anni ’80 su NES, Dragon Quest e Dragon Quest II hanno definito un modo di intendere il gioco di ruolo giapponese, influenzando tutto ciò che sarebbe venuto dopo: dalle iterazioni successive della serie fino ai primi Final Fantasy, passando per interi decenni di design.
Oggi però, quel linguaggio originario rischia di risultare opaco. Le limitazioni tecniche, la semplicità estrema delle interazioni, la struttura dei dungeon, il ritmo lento, il grinding obbligato: tutti elementi che oggi, a un pubblico moderno, appaiono difficili da accettare senza un filtro di adattamento. È qui che entra in gioco Dragon Quest I & II HD-2D Remake, un progetto complesso che mira a far convivere due esigenze opposte:
preservare l’identità storica delle opere originali, senza trasformarle in qualcosa che non sono mai state
presentarle con un linguaggio audiovisivo e funzionale leggibile oggi, senza tradirne la struttura
La domanda non è banale: come si resta fedeli a dei giochi che sono, allo stesso tempo, fondamentali e obsoleti? Qual è la soglia oltre la quale un intervento moderno rischia di trasformarsi in un tradimento? E quanto può essere realmente “attuale” un JRPG nato nel 1986?
Il remake tenta di rispondere attraverso una via precisa: la filologia applicata all’HD-2D. Non rilegge, non reinterpreta, non reinventa. Ricostruisce. Ricontestualizza. E lo fa con una cura evidente, che non elimina le rigidità storiche, ma le rende più digeribili grazie a una presentazione moderna e a una serie di miglioramenti mirati.
Il risultato è un’opera interessante, complessa, affascinante e in parte divisiva. Un lavoro che riconosce il valore delle origini, senza fingere che quelle origini non siano state scolpite in un’epoca con esigenze completamente diverse.
Per comprendere davvero questo remake, bisogna analizzare ogni elemento del suo linguaggio: dalla veste visiva al gameplay, dalla colonna sonora al lavoro di ricostruzione totale. E per farlo, bisogna partire da ciò che oggi definisce l’identità estetica dei JRPG classici reinterpretati: l’HD-2D.

L’estetica HD-2D: il cuore visivo del remake
Negli ultimi anni, l’estetica HD-2D è diventata uno dei marchi di fabbrica più discussi e apprezzati di Square Enix. È una scelta artistica che non punta semplicemente a “modernizzare la pixel art”, ma che tenta di sintetizzare due livelli di memoria diversa:
la memoria nostalgica, legata al minimalismo grafico degli anni ’80 e ’90
la memoria estetica moderna, che richiede profondità, texture, illuminazione, atmosfera
L’HD-2D non è solo un effetto visivo, ma un linguaggio narrativo. E nel caso di Dragon Quest I & II HD-2D Remake, questo linguaggio ha un ruolo ancora più delicato: deve evocare un mondo che, nel NES, esisteva quasi solo come astrazione.
I fondali erano poco più che forme geometriche. Le città erano quadrati colorati. I dungeon erano corridoi spogli. I personaggi erano sprite tanto iconici quanto essenziali. Il lavoro del remake consiste nel trasformare tutto questo in luoghi dotati di identità visiva riconoscibile, senza perdere l’immediatezza delle mappe originali.
È un esercizio di equilibrio che solo l’HD-2D poteva gestire. E, nella maggior parte dei casi, funziona.

Ricostruire ambienti semplici senza snaturarne la logica
Una delle sfide più interessanti del remake riguarda la trasformazione di ambienti che, nel 1986, erano stati progettati con una logica completamente diversa. Le città di Alefgard, per esempio, erano composte da pochissimi elementi: qualche edificio, un paio di NPC, un mercante, una locanda. Rifarle oggi avrebbe potuto spingere verso un arricchimento eccessivo, rischiando di trasformarle in luoghi molto più densi di quanto progettato originariamente.
Il team invece sceglie la via della coerenza strutturale:
Guarda il nostro ultimo video
🔔 Iscriviti al canalele mappe conservano la geometria originale
il posizionamento degli edifici è quasi identico
gli spazi non sono stati riempiti artificialmente
Eppure tutto appare più vivo, grazie a un’impostazione visiva più dinamica:
texture dettagliate
luci che modellano l’atmosfera
elementi decorativi discreti ma efficaci
animazioni ambientali leggere (foglie, vento, acqua)
Questa capacità di mantenere semplice ciò che deve rimanere semplice, senza scadere nel minimalismo sterile, è uno dei successi più evidenti del remake.

Luci e ombre come strumento narrativo
Uno degli aspetti più curati dell’estetica HD-2D è il sistema di illuminazione. Nei dungeon, le torce proiettano ombre morbide e realistiche, rendendo gli ambienti più leggibili e più immersivi.
L’illuminazione assume addirittura un ruolo narrativo:
nelle aree più pericolose, la luce è più bassa, i colori più freddi
nei villaggi sicuri, il colore dominante è caldo, rassicurante
nelle aree regali o sacre, la luce tende all’oro, sottolineando la solennità
La luce diventa dunque un filtro emotivo che accompagna il giocatore. Una scelta che non trasforma il gioco in qualcosa di moderno, ma che arricchisce la sua capacità di comunicare atmosfera.
Direzione artistica: sobrietà come filosofia
Rispetto ad altre opere HD-2D, come Octopath Traveler 2, questo remake adotta un approccio più contenuto. I colori sono meno saturi, gli effetti meno pronuncati, le texture meno elaborate. È una direzione artistica volutamente prudente, che cerca di non sovraccaricare visivamente giochi che, alla base, nascevano con un approccio minimalista.
Questa sobrietà può essere letta in due modi:
come un pregio, perché mantiene intatta la leggibilità e conserva l’essenzialità tipica dei primi JRPG
come un limite, perché alcune mappe possono risultare meno ispirate o meno articolate rispetto ad altre produzioni HD-2D più recenti
In entrambi i casi, è evidente che la scelta stilistica non è figlia di risorse limitate, ma di una decisione consapevole: rispettare la natura dei giochi originali.

Un gameplay che conserva la sua identità
Raccontare il gameplay dei primi due Dragon Quest significa analizzare un design videoludico che esisteva prima che il genere JRPG avesse una vera forma codificata. Il sistema a turni con visuale in prima persona, l’alternanza tra esplorazione su mappa e dungeon, e l’uso limitato delle abilità derivano da un’epoca in cui la priorità era rendere chiaro e leggibile il ruolo dell’eroe, non costruire complessità sistemiche. Il remake rispetta pienamente questa visione.
La struttura dei combattimenti resta identica: comandi diretti, attacchi, magie, oggetti. Nessuna animazione elaborata, nessuna sequenza dinamica. Il ritmo è volutamente semplice, quasi primitivo, ma proprio per questo mantiene una purezza estetica che oggi ha un sapore quasi archeologico. Non c’è alcuna intenzione di trasformare i due giochi in JRPG moderni: il combattimento deve apparire come appariva allora, e il remake si limita a renderlo più scorrevole.
Questo significa anche che Dragon Quest I, in particolare, conserva una semplicità estrema. Non esistono party, non esiste tattica avanzata: l’esperienza si fonda sulla progressione dell’eroe, sull’acquisizione graduale di magie utili e sull’adattamento a un ritmo che può sembrare lento e ripetitivo. Dragon Quest II, invece, introduce un party più articolato, una maggiore varietà di magie e un livello di complessità più elevato, ma resta comunque radicato in un design vintage.
Il remake non cerca di nascondere nulla di tutto ciò. Lo accetta, lo preserva e lo presenta al giocatore moderno senza filtri.

Le modernizzazioni di quality of life: un intervento chirurgico
La parte più interessante del lavoro del team riguarda le modernizzazioni. Non parliamo di trasformazioni sostanziali, perché l’obiettivo non è mai stato quello di reinventare i giochi, ma di renderli più fluibili per gli standard attuali. In questo senso, i miglioramenti introdotti sono esempi di interventi chirurgici: precisi, puntuali, mai invasivi.
Velocità delle battaglie: finalmente un ritmo sostenibile
Il primo grande miglioramento riguarda la possibilità di accelerare la velocità dei combattimenti. Nei giochi originali, l’esecuzione dei turni era lenta e scandita da una presentazione testuale che oggi sarebbe ardua da sopportare. Con il remake, la velocità selezionabile rende la progressione più scorrevole e attenua la sensazione di ripetitività, soprattutto nelle fasi di inevitabile grinding.
È un cambiamento apparentemente minimo, ma in realtà incide pesantemente sulla qualità complessiva dell’esperienza.
Il teletrasporto rapido: comodità senza rinunciare alla struttura
Anche la possibilità di spostarsi più rapidamente tra le location principali è una scelta intelligente. Non elimina la necessità di attraversare il mondo, ma rende meno pesanti gli spostamenti nei momenti di backtracking. La struttura originale, basata su lunghe traversate, rimane rispettata: il teletrasporto non è uno strumento subito disponibile, ma un beneficio da conquistare come nella versione NES, mantenendo la logica interna del design.
Menu più leggibili, ma ancora rigidi
Il remake aggiorna i menu rendendoli più moderni nella presentazione grafica, ma li mantiene fedeli all’impostazione originale. Le finestre sono più chiare, i comandi più leggibili, ma la struttura rimane segmentata: molte operazioni richiedono passaggi multipli, alcune funzioni non sono immediatamente intuitive e il sistema generale conserva un’impronta che tradisce le sue origini anni ’80.
Questa scelta si può interpretare in due modi differenti:
positivo, per chi desidera un’esperienza autentica
negativo, per chi vorrebbe menu più agili e moderni
In ogni caso, il team ha preferito la coerenza storica alla praticità contemporanea.

Mini-medaglie e missioni secondarie: colmare un vuoto
Le versioni originali dei primi due Dragon Quest avevano pochissimi contenuti facoltativi. Il remake introduce collezionabili, piccole attività secondarie e qualche ricompensa cosmetica o di utilità. Non sono contenuti invadenti, né alterano il ritmo del gioco: servono solo a dare un minimo di varietà e a ridurre il senso di linearità che, in particolare nel primo capitolo, sarebbe altrimenti totale.
Questi elementi non ampliano in modo significativo la longevità, ma rendono l’esperienza più dinamica e meno rigida.
Le rigidità che non potevano essere eliminate
Quando si parla di fedeltà filologica, è inevitabile accettare che alcuni difetti strutturali rimangano. Il remake non li nasconde, e in un certo senso è giusto così: il valore storico dei primi due Dragon Quest risiede anche nella loro semplicità e nei loro limiti.
Spike di difficoltà: un’eredità ostinata
Il problema più evidente, soprattutto in Dragon Quest II, riguarda i picchi di difficoltà. Alcuni incontri casuali sono sorprendentemente impegnativi rispetto al livello della zona, e il bilanciamento complessivo è tutt’altro che morbido. La curva di difficoltà può sembrare irregolare e il remake, pur mitigando leggermente alcuni valori numerici, non interviene in modo drastico.
Questi picchi sono fedeli all’epoca, ma risultano difficili da accettare oggi. Per alcuni saranno parte del fascino vintage; per altri, un ostacolo frustrante.
Grinding inevitabile
Anche se il ritmo delle battaglie è stato velocizzato, rimane un certo grado di grinding. Non ai livelli estremi degli anni ’80, ma comunque presente. I combattimenti casuali continuano a rappresentare la principale fonte di progressione, e le sezioni di allenamento obbligato non sono state rimosse. È un limite del materiale originale che il remake non cerca di nascondere sotto un tappeto.
Dungeon labirintici e linee rigide
I dungeon dei primi Dragon Quest erano costruiti secondo logiche semplici e ripetitive: corridoi, angoli retti, poche sorprese. Il remake li ripropone quasi identici, limitandosi a migliorarne la leggibilità visiva. Se da un lato questo favorisce la fedeltà storica, dall’altro mette ancora più in risalto la loro povertà strutturale rispetto ai dungeon di JRPG successivi.
Mappa del mondo: libertà apparente, direzioni poco chiare
La mappa di Dragon Quest II, in particolare, tende a offrire percorsi multipli senza indicazioni chiare sul corretto ordine di esplorazione. È un aspetto che rispecchia in pieno il design originale e che oggi può risultare disorientante. Il remake prova a mitigare questo problema tramite indicatori più chiari sugli obiettivi, ma non snatura la libertà dell’opera originale.

Il bilanciamento tra fedeltà e accessibilità
L’aspetto più interessante del lavoro del team riguarda proprio il bilanciamento tra fedeltà al passato e necessità di accessibilità contemporanea. Non era possibile trasformare Dragon Quest I e II in esperienze moderne, pena la perdita totale della loro identità storica. Allo stesso tempo, non era possibile presentarli inalterati, pena la loro impraticabilità.
Il remake trova un compromesso:
non elimina tutte le rigidità
non altera le fondamenta del gameplay
non modifica la filosofia dei dungeon
ma introduce strumenti che rendono tutto più accettabile
È un approccio rispettoso, prudente, coerente con il DNA della saga.
La colonna sonora orchestrale: un ritorno alle origini, ma ampliato
La musica di Dragon Quest è uno degli elementi più iconici dell’intera saga. Koichi Sugiyama, con il suo stile sinfonico e immediatamente riconoscibile, ha definito il “suono” del JRPG molto prima che Final Fantasy o altri giganti trovassero la loro identità musicale. Tuttavia, nelle versioni NES di Dragon Quest I e II, queste melodie esistevano in una forma primitiva: poche tracce, sintetizzate, ripetute per necessità tecniche e con un ventaglio sonoro estremamente limitato.
Il remake HD-2D compie un lavoro importante: rende orchestrale ciò che nacque come chiptune essenziale. Questo non significa soltanto arricchire il timbro, ma anche restituire alle composizioni originali la loro intenzione emotiva. Molte melodie dei due giochi, nella loro forma originale, davano solo un assaggio di quello che Sugiyama aveva in mente: oggi possono finalmente esprimere la loro natura piena, sinfonica, armonica.
L’orchestrazione come veicolo narrativo
Il valore maggiore dell’orchestrazione sta nel suo ruolo narrativo. Le fanfare dei castelli assumono una regalità completamente nuova; i temi dei villaggi diventano più intimi e accoglienti; i motivi dei dungeon acquisiscono un senso di mistero e pericolo molto più marcato.
L’accompagnamento orchestrale diventa così un filtro emotivo:
rafforza l’atmosfera delle location
amplifica il senso di pericolo o scoperta
aiuta a contestualizzare le situazioni narrative
In un gioco così minimalista nella messa in scena visiva, la musica svolge un ruolo cruciale nel dare peso e identità a luoghi e momenti che altrimenti rischierebbero di apparire troppo semplici.

Il limite inevitabile del primo Dragon Quest
Nonostante l’orchestrazione, rimane un limite strutturale: Dragon Quest I ha pochissime tracce. Anche con strumenti sinfonici, la ripetitività è inevitabile. Esplorare l’intero mondo ascoltando cicli musicali molto brevi può risultare monotono nelle sessioni più lunghe. Questo non è un difetto dell’orchestrazione, ma un vincolo del materiale originale.
Dragon Quest II, grazie a una maggiore varietà musicale, riesce invece a proporre un panorama sonoro più ricco e meno ciclico.
Effetti sonori: moderni ma rispettosi
Oltre alla musica, il remake aggiorna anche gli effetti sonori: aperture di porte, rumori ambientali, notifiche dei menu e impatti delle abilità sono stati completamente ridisegnati. È un sound design moderno ma rispettoso, che semplifica la lettura audio degli eventi senza mai stonare con l’estetica minimalista del gioco.
Anche in questo caso, la filosofia è chiara: aggiornare senza tradire.
Una ricostruzione totale: dall’hardware 8-bit a un nuovo linguaggio audiovisivo
È fondamentale ribadirlo: Dragon Quest I & II HD-2D Remake non è una remaster. Non si limita a ripulire sprite originali o a ricalcare mappe preesistenti. È una ricostruzione totale.
In cosa consiste concretamente questa ricostruzione:
nuove mappe ridisegnate da zero
nuovi sprite creati specificamente per l’HD-2D
nuove animazioni per personaggi e ambientazioni
nuovi modelli tridimensionali per lo scenario
nuovi effetti di luce e ombre
nuova colonna sonora orchestrata
nuovi menu e UI moderni
Ogni elemento visivo e auditivo è nato ex novo. Questo distingue profondamente il progetto da operazioni più conservative come le Pixel Remaster dei Final Fantasy, dove la logica visiva rimane quella originale.
Qui, invece, il team ha scelto di reinterpretare l’immagine, pur mantenendo identica la struttura ludica.
Ricostruire senza riscrivere: la disciplina filologica
Il lavoro è sorprendente proprio per il modo in cui equilibra ricostruzione e rispetto filologico. Il team ha scelto di non aggiungere troppi orpelli narrativi o espansioni non necessarie. Le storie restano minimaliste, i personaggi restano semplici, i dialoghi restano essenziali. Il remake migliora ciò che può essere migliorato, ma non amplia ciò che deve rimanere semplice.
È un approccio quasi “museale” — nel senso più positivo del termine. Come se i primi Dragon Quest fossero reperti archeologici, e il compito del team fosse esporli con una cura moderna, senza reinventarli.
Il remake resta fedele all’intreccio di base e al ruolo dei protagonisti, tuttavia introduce nuove cutscene, personaggi di supporto e dungeon rielaborati, ampliando soprattutto la portata narrativa del primo capitolo e rendendo più scorrevole il secondo.
Questo tipo di fedeltà può sembrare un limite per alcuni giocatori moderni, ma rende il remake un documento storico estremamente prezioso.

Rendere leggibile ciò che prima era astratto
Una delle sfide maggiori era trasformare fondali minimalisti in ambienti credibili senza renderli troppo complessi. L’HD-2D permette di mantenere la semplicità formale della mappa, ma di arricchirla visivamente in modo coerente.
Per esempio:
Le pareti dei dungeon sono più dettagliate, ma conservano la struttura squadrata.
Le città rimangono spoglie, ma acquisiscono texture, insegne e decorazioni che ne rafforzano l’identità.
I castelli diventano luoghi finalmente leggibili: scale, passaggi e sale assumono una coerenza architettonica che prima era solo suggerita.
È una reinterpretazione rispettosa, non una riscrittura.
L’HD-2D come strumento di “traduzione” storica
Il valore maggiore di questa estetica è la sua capacità di tradurre, più che reinventare. Dove la pixel art del NES era costretta a ridurre tutto all’essenziale, l’HD-2D può suggerire ciò che la tecnologia dell’epoca non poteva mostrare:
profondità
materiali
luci naturali
atmosfera
Questa traduzione non cambia il significato delle location originarie: lo amplifica, lo chiarisce, lo porta nel presente.
La filosofia del remake: preservare l’essenziale, modernizzare l’accessorio
Analizzando il progetto, emerge chiaramente un pattern:
Sono state aggiornate solo le componenti che avrebbero reso il gioco poco accessibile oggi:
UI
velocità delle battaglie
teletrasporto
leggibilità della mappa
effetti visivi
suoni
qualità cinematica complessiva
Il resto — struttura, filosofia, ritmo, tono — è stato preservato.
In modo altrettanto evidente, il team ha scelto di non toccare:
la logica degli incontri casuali
la struttura dei comandi
il bilanciamento di base
il minimalismo narrativo
la costruzione geografica del mondo
Questa distinzione fa del remake un esempio di remake filologico, e non revisionista. È una scelta coraggiosa, perché rinuncia alla possibilità di espandere o reinterpretare, ma per questo stessa ragione appare coerente con il valore storico dei giochi.
Il rischio: essere troppo fedele
Un remake così fedele porta inevitabilmente con sé delle criticità:
alcuni giocatori troveranno il ritmo troppo lento
altri faticheranno a tollerare i picchi di difficoltà
altri ancora potrebbero percepire la struttura come troppo rigida
Ma questi limiti non sono errori del remake: sono caratteristiche intrinseche dei giochi originali. Il team ha scelto di non eliminarle artificialmente.
È un lavoro onesto, trasparente e, soprattutto, rispettoso.

Prezzo e valore: un equilibrio delicato tra ricostruzione e durata
Una delle questioni più discusse al momento dell’uscita di Dragon Quest I & II HD-2D Remake riguarda il prezzo. I primi due capitoli della serie non sono giochi lunghi secondo gli standard moderni: Dragon Quest I può essere completato in una manciata di ore, mentre Dragon Quest II, pur essendo più ampio, rimane un JRPG relativamente breve rispetto ai titoli contemporanei.
Per questo motivo, la percezione del prezzo può facilmente oscillare tra due poli opposti. Da un lato, alcuni giocatori potrebbero giudicare eccessivo l’investimento richiesto per due giochi che, nella loro forma originale, erano prodotti estremamente essenziali. Dall’altro, è impossibile ignorare la mole di lavoro impiegata per ricostruire integralmente entrambi i mondi di gioco con lo stile HD-2D, realizzare nuovi sprite, riarrangiare le musiche in forma orchestrale, implementare migliorie tecniche, rivedere le interfacce, ripensare le mappe e adeguare l’esperienza generale ai tempi moderni.
L’operazione, a conti fatti, è paragonabile più a quella di un remake completo che a una remaster superficiale. Non si tratta di un porting con filtri grafici: è un rifacimento totale fondato sulla ricostruzione da zero degli asset. È questo che permette di comprendere perché il prezzo possa apparire un po’ alto, ma comunque in parte giustificabile.
Il valore del pacchetto: non solo contenuto, ma cura progettuale
Non si valuta il valore di un’opera dal solo numero di ore necessarie per completarla. In un contesto come quello dei primi due Dragon Quest, questa considerazione diventa ancora più evidente: si tratta di opere nate in un’epoca in cui il design non mirava all’espansione, ma alla sintesi, e in cui l’essenzialità era parte integrante della filosofia di game design.
Il valore del remake, quindi, non sta soltanto nella durata:
risiede nella ricostruzione rispettosa, fedele e approfondita
nella reinterpretazione estetica in chiave moderna
nell’orchestrazione completa della colonna sonora
nella capacità di rendere accessibili due opere storiche senza snaturarle
Si tratta di un investimento su un patrimonio culturale, più che su un contenuto quantitativamente abbondante. Le ore di gioco non sono molte, è vero, ma il lavoro artistico sottostante è significativo.
Longevità complessiva: essenziale, ma solida
La durata combinata dei due giochi, nel remake, si colloca su un valore soddisfacente per gli standard dei JRPG classici. Dragon Quest I rimane un’esperienza breve ma intensa, che non ha bisogno di dilungarsi. Dragon Quest II offre una progressione più ampia, con un mondo più vasto, un party più articolato e una maggiore varietà di situazioni.
All’interno del contesto storico della saga, la longevità del pacchetto è più che adeguata. All’interno del contesto videoludico moderno, può risultare modesta, ma sempre coerente con le origini dei due titoli.
La presenza di mini-medaglie, piccoli incarichi facoltativi e qualità della vita migliorate dona ulteriore respiro all’esperienza, senza gonfiarla artificialmente.
La funzione culturale del remake: preservare un capitolo fondamentale della storia del JRPG
I primi Dragon Quest non sono solo videogiochi: rappresentano l’inizio strutturato di un linguaggio. Prima del 1986, il concetto stesso di JRPG era fluido, indefinito, contaminato dalle logiche dei giochi occidentali e dalle limitazioni tecniche. Dragon Quest diede per la prima volta forma a un genere, creando una grammatica che avrebbe influenzato intere generazioni di sviluppatori.
Riproporre questi giochi oggi, in una veste che non tradisce la loro identità ma li rende comprensibili, significa preservare un pezzo fondamentale della storia del videogioco giapponese.
Il remake, dunque, assume quasi una valenza educativa:
permette ai nuovi giocatori di scoprire le origini del genere
permette agli appassionati storici di rivivere quei momenti con una sensibilità moderna
consente alla critica di analizzare un prodotto seminale con un filtro più accessibile
Non è solo un prodotto commerciale, ma anche un’opera di conservazione culturale.
Fedeltà come scelta critica
Molti remake moderni scelgono la reinterpretazione. Cambiano il ritmo, modificano i sistemi, ampliano la narrazione. Qui, invece, il team ha fatto una scelta diversa: lasciare che l’opera parli con la sua voce originaria, limitandosi a creare migliori condizioni di ascolto.
Questa fedeltà non è mancanza di ambizione: è una forma di rispetto per la natura essenziale dei primi due Dragon Quest. È una dichiarazione di intenti:
Non vogliamo reinventare il passato. Vogliamo renderlo visibile, comprensibile e fruibile.
È una forma di responsabilità critica rara nelle produzioni contemporanee.
L’identità dei due giochi: differenze interne e valore complementare
Dragon Quest I è un gioco di purezza estrema. Un protagonista solo, un mondo ridotto, poche magie, dungeon essenziali. Questa semplicità, se presentata oggi in forma inalterata, rischierebbe di apparire povera. Il remake invece la rende leggibile, permettendo al giocatore di percepire la forza dell’archetipo: un viaggio di apprendistato, la conquista progressiva di nuove competenze, la scoperta graduale di un mondo che da piccolo si trasforma in simbolico.
Il valore di Dragon Quest I non risiede nella sua complessità — che non c’è — ma nella sua struttura paradigmatica. È l’atto di nascita di un intero genere.
Dragon Quest II è già un passo avanti, ed è qui che il remake mostra il suo lato più complesso. L’introduzione di un party, un mondo molto più vasto, una narrativa leggibile e un’impalcatura di gioco più articolata rendono questo secondo capitolo più vicino ai JRPG moderni, pur mantenendone una forma primitiva.
Il remake valorizza questa ambizione attraverso la presentazione estetica, la leggibilità delle mappe e il sistema di progressione aggiornato, pur conservando i famosi spike di difficoltà che hanno reso Dragon Quest II celebre — e temuto.
Il valore del pacchetto: due identità, un’unica esperienza
Presi insieme, i due giochi raccontano l’evoluzione stessa del JRPG in tempo reale: dalla semplicità assoluta alla costruzione di un mondo coerente, più vasto, più narrativo. Il remake mette in risalto questa progressione storica senza alcuna forzatura: i due giochi sono presentati così come sono, ma resi leggibili grazie alla cura estetica e audio.
Punti di forza
estetica HD-2D suggestiva e mai invadente
colonna sonora orchestrale che valorizza il materiale originale
miglioramenti di qualità della vita intelligenti e calibrati
ricostruzione totale di asset, mappe e interfaccia
fedeltà rispettosa agli originali
buon valore complessivo, anche se non eccezionale
longevità adeguata al tipo di esperienza
Punti deboli
menu ancora rigidi e talvolta macchinosi
spike di difficoltà soprattutto nel secondo capitolo
monotonia musicale in Dragon Quest I
direzione artistica prudente, meno audace di altri remake HD-2D
grinding ancora presente
Dragon Quest I & II HD-2D Remake non è un gioco pensato per stupire o reinventare. È un’opera costruita con rispetto, con cura e con una consapevolezza rara dell’importanza storica dei titoli di partenza. Preserva tutto ciò che va preservato e migliora tutto ciò che sarebbe oggi insostenibile.
Non è perfetto. Non è moderno. Ma è fondamentale.
È un remake che conosce i propri limiti e che non tenta di superarli artificialmente. La sua forza sta proprio nella sua identità filologica: nel restituire alle origini del JRPG una veste che consente ai giocatori moderni di comprenderle senza filtri.
Per chi ama il genere, è un pezzo di storia, per chi cerca un JRPG moderno, potrebbe risultare ostico, per chi vuole capire da dove nasce tutto questo, è essenziale.
Per altri contenuti sul mondo dei JRPG iscriviti al canale youtube
Se invece vuoi conoscere tutta la storia del grande rivale di Dragon Quest, Final Fantasy, trovi la storia completa del franchise qui









